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Davide Cavalieri: “verso l’umanizzazione dell’e-commerce”


Davide Cavalieri
Davide Cavalieri

L’occasione è il libro “Un desiderio chiamato retail”, testo istruttivo e godibilissimo dove ad un’impostazione più didattica (da formatore, ça va sans dire) si alternano curiosi e divertenti episodi di lavoro vissuto.

Il risultato è l’intervista, che vi proponiamo di seguito, al suo autore, Davide Cavalieri, ceo di Cavalieri Retail e già collaboratore di TEN-diyandgarden, nella sezione “Trends&Experience”. Come sempre, un momento per ascoltare un punto di vista interessante, con una visione internazionale sulle dinamiche presenti e future che caratterizzano il retail, fisico o virtuale che sia.

Partiamo dal libro, ovvero “Strategie per conquistare la mente e il cuore dei clienti dai babyboomers ai nativi digitali”. Un bel percorso, direi…
Sì, abbraccia un periodo storico, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, dove molte cose hanno subito un cambiamento radicale. Il libro, in realtà, è uscito nel 2019 appena prima scoppiasse la pandemia, ed è il risultato di un viaggio, il mio viaggio professionale, attraverso i diversi momenti ed esperienze che hanno caratterizzato l’evoluzione del retail italiano e non solo.

L’incontro con la GD e l a rivoluzionaria esperienza francese

Un ex commercialista che si è voltato al retail, vero?
Di fatto sì, per la precisione contabile e commercialista ma anche formatore, pur se in ambito amministrativo. Fu proprio il direttore dell’istituto dove insegnavo, IAL Piemonte, a determinare in un certo senso il mio destino, chiedendomi di realizzare una lezione che avesse come argomento la statistica applicata al marketing. Era il 1988 ed è da lì che nasce l’avventura professionale sfociata nell’attuale Cavalieri Retail. Certamente con molti passaggi, cambiamenti ed approfondimenti ma, da quel lavoro, costruito sul campo e da un successivo periodo lavorativo, nei primi anni Novanta, presso Auchan Francia, il retail è diventato la mia passione.

Partiamo dalla prima esperienza, il primo incontro con la moderna distribuzione
Una due giorni di statistica ai ragazzi del marketing che decisi di fare sul campo, con la realizzazione di 500 interviste presso Panorama, il primo centro commerciale torinese. I risultati delle interviste portarono ad una ricerca che ritenemmo valevole di essere pubblicata. La proponemmo alla rivista Largo Consumo dove era direttore Luigi Rubinelli, il quale non solo ce la pubblicò ma ne commissionò altre sei. Questo è stato l’antefatto che ha dato il via alla mia nuova vita professionale.

Poi c’è stata l’esperienza con la distribuzione francese dell’epoca. Com’è andata?
Ho trascorso sei mesi in Francia ed è stata un’esperienza rivoluzionaria per quanto mi riguarda. Non solo perché non avevo nessuna esperienza in fatto di grande distribuzione ma perché all’epoca la Francia era molto più avanti. In termini di esperienza e competenze. Ero a Marsiglia, dove c’è la scuola di formazione; una scuola non solo fatta di teoria ma con veri carrelli e scaffali con i quali lavorare. Un’impostazione che mi ha letteralmente “illuminato” e che successivamente mi ha condizionato nel mio percorso professionale successivo.

In che senso?
E’ una questione di impostazione, soprattutto. Quella francese, di fronte ad un problema non si limitava solo a risolverlo nell’immediato, ma risaliva alla causa in modo che non potesse più verificarsi. Una differenza, rispetto a quella italiana dell’epoca che si poteva riassumere in due termini: essere “problem solving” oppure “problem setting”. Emblematico un esempio: siamo al 23 dicembre e una signora al 4° mese di gravidanza si sente male, ma col delirio di gente che si può ben immaginare ci mettiamo 20 minuti a rintracciarla. Bene, nei giorni immediatamente successivi venne indetta una riunione dalla quale uscì la creazione della cassa gestanti: la soluzione del problema, ma a monte. E poi l’esperienza, sul campo perché se non conosci il lavoro non puoi neanche insegnarla, la teoria. Questa è stata la lezione che ho appreso in Francia; osservare tutte le dinamiche e andare oltre, coniugando l’aspetto commerciale a quello di marketing. E, all’epoca, non era così scontato. E’stato letteralmente un colpo di fulmine.

“Un desiderio chiamato retail”, 6 capitoli per stimolare a fare meglio

Un colpo di fulmine iniziale ma un continuo e costante progetto in evoluzione lungo 30 anni. Il libro rappresenta un po’ la summa di questo percorso?
Il mio lavoro e quello dell’attuale Cavalieri Retail è stato costruito giorno per giorno, osservando, imparando e, naturalmente anche sbagliando. E nel libro, suddiviso in 6 capitoli, ho cercato di raccontare un po’ tutto il processo che caratterizza il retailer, partendo dall’identità, il target, gli obiettivi, l’organizzazione, la necessità dell’ascolto e la grande leva della comunicazione. Il titolo vuole stimolare a fare sempre meglio “per conquistare la mente e il cuore di tutti i clienti”.

E infatti oggi si parla di esperienza di acquisto come risultato ultimo di un insieme di tecniche di vendita e marketing volte ad ottenere il cosiddetto effetto wow. O almeno questo è quello cui molti si ispirano. Poi, spesso, avere una buona esperienza di acquisto è già un successo. Che ne pensi?
L’effetto wow è quello che vorrebbero vivere tutti i clienti, dai più giovani ai più vecchi. Il cliente si aspetta l’intrattenimento puro, pensiamo a Disney, a come è organizzato, alle fasi della visita. Tutto congeniato per scatenare l’adrenalima ai massimi e poi veicolarti nello store dove, a quel punto, l’acquisto è assicurato. Ed è lì che ho portato una selezione di direttori di Autogrill, iniziando la formazione giù direttamente sul TGV. Un’esperienza incredibile che ha creato molto entusiasmo e che si è rivelata molto costruttiva. E’ durata 3 anni e molto di quello che si vede negli attuali Autogrill è il risultato di quel periodo. Penso che il retail sia un’esperienza unica ma sul campo devi avere persone “ingaggiatissime” e molto formate.

Formazione, formazione e, ancora, formazione

Però spesso gli addetti vendita non sembrano molto motivati e paiono per lo più dei magazzinieri che riforniscono gli scaffali
Penso che sia un po’ come a scuola, la passione per una determinata materia ce l’hai a prescindere oppure si può costruire? Credo che se si vogliono fare le cose in certo modo e ottenere un certo risultato le persone vadano coinvolte. E’ necessario trovare gli attivatori dell’emozione, come ad esempio chiedere a dei giovani neoassunti di “fare i clienti” per un giorno, in modo che possano dare un loro contributo. E poi, chiaramente, la conoscenza dei prodotti che vendi è fondamentale. In particolare, nel bricolage, il cliente si rivolge all’addetto vendita perché spera che possa risolvere un problema. Ecco, risolverlo e raccogliere i ringraziamenti finali è anch’esso un elemento di gratificazione e soddisfazione. Lavori lo stesso ma almeno dai alla tua giornata un significato diverso. Purtroppo, spesso non è così e la formazione sul prodotto (in generale, non parlo solo per il brico) è sommaria, con il risultato che la reputazione dell’insegna ne risente. Non sarà un caso se in Apple la formazione dura un mese. Un mese è troppo? Ok ma almeno qualche giorno.

Perché un mese non si può fare? Troppo costoso?
Perché non c’è reale cultura della formazione, ce l’hanno solo i grandi nomi internazionali. Oppure è troppo sporadica, occasionale e così non può funzionare. La formazione, per dare risultati dev’essere continuativa e costante nel tempo.

Non è anche una questione di mancanza di risorse?
Indubbiamente la moderna distribuzione è dominata dalla logica del prezzo e dei margini. Un’impostazione che ovviamente riduce la possibilità di fare investimenti in formazione. Ma troppo spesso si dimentica che avere personale adeguatamente formato contribuisce in maniera decisiva all’incremento delle vendite. E l’aumento di fatturato che ne deriva è sempre largamente superiore agli investimenti fatti sul personale.

Mediamente quanto costa la formazione di una persona in un anno?
1000 euro.

I dati ci sono, ma vanno analizzati

Quanto conta la mancanza di cultura del dato, altro problema non secondario nella distribuzione italiana?
Molto. Abbiamo una mole di informazioni che non vengono nè lette né tantomeno studiate. Eppure, basterebbe guardarli, i dati, per convincere anche i più titubanti, ma è anche vero che servono persone qualificate per analizzare le informazioni in modo corretto. Un altro elemento controproducente è la visione a breve termine: se nell’anno in corso hai fatto 98 anziché il 100 previsto non devi ridimensionare o peggio ancora bloccare i progetti di investimento e formazione. Piuttosto bisogna lavorare sul potenziale e analizzare i dati per capire come mai hai fatturato 98 anziché 100. E’ finita l’epoca dei volumi ed è iniziata quella dei valori. E’ necessario essere concentrati, avere le competenze, essere capaci di leggere le differenze, analizzare il potenziale e lavorarci.

In questo senso, il Covid e la crisi hanno migliorato o peggiorato la situazione?
Purtroppo non si è approfittato del momento e, in generale, la situazione è peggiorata perché molti sono tornati indietro: quelli che sono andati male sono andati in crisi, quelli che sono andati bene si sono accontentati e non hanno investito. Nel 2021 sono ritornati i dati negativi e la gente anche se è più consapevole agisce meno.

Il digitale come concorrente del fisico può mettere un po’ di pressione?
Dipende. Se pensiamo a prodotti tecnici o ad elevato contenuto tecnologico non è detto che l’on line possa diventare fastidioso rispetto al canale fisico. Certamente a livello informativo il web è uno strumento formidabile, ma per quanto riguarda l’acquisto, pur rappresentando una grande comodità, non è detto che possa essere preferito. O almeno fino a quando non sarà presente, e ci arriveremo, un’intelligenza artificiale molto sofisticata. Nel frattempo, il negozio fisico può migliorarsi e usare la stessa tecnologia, ad esempio per una vendita on line in diretta (live shopping o live streaming.ndr), presentando i prodotti e dando la possibilità di un acquisto immediato. Qualcuno in Europa si sta già cimentando, ma in Cina il fenomeno è dilagante, tanto che quest’anno ha fatto registrare un giro d’affari di 300 miliardi di dollari.

Le nuove tendenze del commercio: l’umanizzazione dell’e-commerce

300 miliardi? Qual è il segreto di un successo così dirompente?
La sua natura ibrida, di fatto siamo di fronte all’umanizzazione dell’e-commerce. Credo sia una grande opportunità e, ancora una volta, indica quanto l’elemento umano sia fondamentale nell’esperienza di vendita. Ma anche in questo caso sono necessari investimenti e perseveranza. Altro termine poco frequentato rispetto all’online dove, la maggioranza degli imprenditori, non si sa per quale motivo, si aspetta risultati immediati. Lo stesso imprenditore non ha lo stesso atteggiamento se apre un negozio fisico, tutt’altro: dà tempo e risorse. Ma con l’e-commerce l’approccio non è lo stesso.

Qual è la grande sfida per il futuro del retail?
La grande sfida è usare la tecnologia per superare quei lavori che non ha più senso che siano fatti da un umano. E’ necessario ridisegnare i ruoli delle persone con dando maggiori competenze e responsabilità, uscendo dalla logica del “dipendente”, concetto veramente demenziale!  Ma per fare questo abbiamo bisogno di avere meno capi nelle aziende e più manager capaci di gestire la crescita, i processi, e la formazione. E poi la visione: dove voglio arrivare tra 10-15 anni? Hanno tutti purtroppo una visione molto breve, invece è necessario rivedere e ridisegnare i processi, con infrastrutture e sovrastrutture importanti.

Ci sono situazioni all’estero più avanti in questo senso?
Non ne vedo tantissime, ma tralasciando la Cina che ha una visione diversa del concetto di lavoro, i paesi con maggiore visione, parlando di retail, sono quelli del Nord Europa. La Germania, ad esempio, sta facendo sperimentazioni interessanti e l’Inghilterra, anche se con la Brexit si è molto fermata. L’Italia ha un potenziale inespresso ma dobbiamo fare più network e costruire processi più strutturati.

Anche la piccola media impresa e distribuzione possono farcela?
Il piccolo guarda al locale, perché è quella la sua capacità, ma la sopravvivenza è sempre più difficile. Ci sono troppe variabili tra costi di gestione in crescita, imprevisti, ricambio generazionale, ecc. Ma anche grande e grosso non serve. Bisogna essere grandi ma estremamente snelli e veloci.

Generalista o specializzato?
Lo slancio generalista è una contaminazione di Amazon, il desiderio di diventare piattaforma, ma è difficile, rischia di non stare in piedi. Meglio l’alta specializzazione, con un assortimento ben pensato e un livello di servizio al cliente elevatissimo e completo.



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