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Censis, l’Italia è un Paese “malinconico”

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censis 2022

È un quadro a tinte piuttosto fosche quello tratteggiato dal Censis nel suo 56° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato dal direttore generale Massimiliano Valerii e dal segretario generale Giorgio De Rita.

Un’Italia entrata “nel ciclo del post-populismo”, che non cresce ma che vive – o forse sopravvive – “in uno stato di latenza”. Un Paese dove tanti sono i motivi di sconforto da parte di cittadini che vivono in preda alla “malinconia”.

Oramai rassegnati a causa di un susseguirsi di eventi globali negativi – dal Covid alla guerra in Ucraina – che sembrano non avere fine. Eventi che, con le relative conseguenze, si aggiungono ai malesseri di lungo termine.

Alle paure relative all’economia si quelli legati al rischio di un terzo conflitto mondiale, alle riflessioni sul futuro di sanità e scuola, alle considerazioni sull’equità e alla disillusione nei confronti di una classe politica sempre più lontana dalla realtà.

Le nostre analisi si collocano al termine di un triennio straordinario: la pandemia, che dura ancora oggi; una guerra scoppiata alle porte dell’Europa; i costi delle materie prime e dell’energia, con la crescita dell’inflazione”. Nasce il neologismo “backshoring”, una sorta di nuova globalizzazione che premia la stabilità e l’affidabilità dei Paesi nei rapporti economici e commerciali con gli altri Stati.

Privilegi insopportabili

La crescita dell’inflazione e la crisi energetica sono, dal punto cronologico, gli ultimi problemi che stanno affrontando gli italiani che secondo il rapporto rinnovano “la domanda di prospettive certe di benessere, accompagnata da istanze di equità non più liquidabili come aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico-demagogico”.

Il 92,7% degli italiani è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo e il 76,4% ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari. Per il 69,3% il proprio tenore di vita si abbasserà, percentuale che sale di 10 punti percentuale tra le persone che già detengono redditi bassi, mentre oltre il 64 % ha iniziato già a intaccare i risparmi per fronteggiare l’inflazione.

Da questo sentiment nasce l’odio per i privilegi di certe classi. L’87,8% considera insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni, l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager. All’84,1% danno fastidio le tasse troppo basse pagate dai giganti del web, così come i guadagni facili degli influencer (81,5%), gli sprechi nelle feste delle celebrity (78,7), l’uso dei jet privati (73,5%).

I cittadini perduti della Repubblica

Considerazioni comuni che però non sfociano in conflitti o mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni o cortei per le strade.

Si nota invece, come sottolineato nel suo commento da Valerii, una “ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica”. Il direttore generale del Censis ricorda come nelle ultime elezioni il primo partito è stato quello dei non votanti. Un gruppo numeroso – circa 18 milioni di persone, pari al 39% degli aventi diritto – composto da astenuti, schede bianche o nulle, che ha segnato un record e una profonda cicatrice nella storia repubblicana. Addirittura in 12 province i non votanti hanno superato la soglia del 50%.

Questo è solo un esempio di quella tentazione alla “passività” dichiarata dal 54,1% degli italiani. All’insegna della filosofia, come sottolinea il rapporto del Censis, semplice ma efficace: “lasciatemi vivere in pace nei miei attuali confini soggettivi”.

E se accadesse di nuovo?

Nell’immaginario collettivo si è sedimentata la convinzione che tutto può accadere, anche l’indicibile. Basta guardarsi indietro: i lockdown, il taglio di consumi essenziali a partire dall’energia contingentata in questo inizio di inverno, la guerra di trincea, il paventato uso della bomba atomica.

“Abbiamo visto che in questi anni sono successe cose fuori dal nostro controllo. Eventi geograficamente lontani possono stravolgere la nostra vita; potrebbe scoppiare la guerra atomica; potremmo entrare in guerra noi stessi”, ha continuato Massimiliano Valerii.

Per fare fronte a questo è aumentata l’adesione alle polizze assicurative, ad esempio.

Per l’84,5% gli eventi geograficamente lontani possono cambiare improvvisamente e in modo radicale la quotidianità e stravolgere i propri destini. Il 61,1% teme che possa scoppiare un conflitto mondiale, il 58,8% che si ricorra all’arma nucleare, il 57,7% che l’Italia entri in guerra. Oggi ben il 66,5% degli italiani (10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid) si sente insicuro.

Di cosa hanno paura gli italiani

A minacciare gli italiani anche i virus e le minacce biologiche (37,7% del campione), seguiti dai temi energetici e di approvvigionamento delle materie prime (26,6%). Impauriti da un’estate all’insegna di un caldo record seguito da piogge in alcuni casi disastrose, il 24,5% teme le catastrofi legate ad eventi atmosferici estremi, il 9,4% ha paura degli attacchi informatici.

L’invecchiamento è considerato un problema, a causa anche della crescita della popolazione che supera i 65 anni, che ha visto un incremento del 60% rispetto a 30 anni fa.

Un dato da cui, in prospettiva, rischiano di derivare pesanti conseguenze in termini di personale sanitario e del mondo della scuola. A questo si aggiunge, dice il rapporto, il non invidiabile primato dei giovani Neet: il 23,1% di chi ha tra 15 e 29 anni non studia e non lavora. Mentre solo il 26% è laureato, contro il 41% della media europea.

Nuove tecnologie e lavoro

Nel 2016 il 21,6% degli italiani riteneva che le nuove tecnologie potessero creare nuova occupazione. Cinque anni dopo erano il 30,7%, superando – 30,5% – chi le considera invece in grado di togliere occupazione. Diminuisce, passando dal 46,0% al 38,8%, anche chi le ritiene indifferenti. Anzi tanti pensano che sia stata la maggiore confidenza con il digitale a determinare un aumento dell’ottimismo nei confronti di tutto ciò che è tecnologico.

Tuttavia, se guardiamo sempre al mondo del lavoro, gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici per il lavoro. Con il 36,4% degli intervistati non più disposto a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più. Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé.

Superare il tempo di latenza

Nelle sue conclusioni Giorgio De Rita ha definito un “tempo di latenza”, il periodo che stiamo vivendo. “Nella latenza ci sono due elementi da tenere in considerazione. Da un lato se dura troppo ci sono troppi rischi per la società di non progredire. Serve una capacità di risposta che sia individuale ma anche collettiva. Dall’altro è lo spirito costruttivo che ha le sue basi su comparti che funzionano.

L’export è decisamente positivo, il turismo e il risparmio vanno bene. Dalla latenza però bisogna uscire, non possiamo rimanere intrappolati. La classe dirigente deve ritrovare la forza e la consapevolezza di dare risposte. In realtà rassicura, rimane nel breve periodo. Ma non basta, c’è bisogno di una riapertura verso il futuro. Altrimenti rischiamo “la condanna della malinconia” come ricordato da Valerii, un rischio che non ci possiamo permettere”.

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