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L’involuzione dei centri commerciali


Siamo abituati a pensare che viviamo nel Paese più bello del mondo. Ed è vero: siamo il Paese dove si mangia bene, dove si beve bene, dove ci si veste bene, dove l’artigianalità e la qualità sono ancora valori che fanno la differenza.

Ma cosa succede se non si trovano più gli alimentari, le botteghe, i negozi di abbigliamento o di oggettistica, i così detti negozi di vicinato?

Non si tratta di una domanda retorica: sempre più spesso, passeggiando per le vie di un piccolo centro cittadino, dove prima c’era un negozio in piena attività è ora molto facile trovare una saracinesca abbassata e un cartello recante la scritta “Chiuso”. Per fallimento, per cessata attività, per liquidazione.

Anche gli ultimi dati di Confcommercio confermano questo quadro: su un campione di 40 città italiane, escluse le più grandi come Roma, Milano e Napoli, nel periodo 2008-2016 i negozi del commercio al dettaglio hanno subito un calo del 13,2%. Nei centri storici in particolare la loro presenza è scesa del 14,9%, mentre fuori si attesta un -12,4%. Sono numeri che devono farci riflettere e sui quali in particolare la categoria a cui appartengo, cioè quella degli architetti, deve soffermarsi.

E’ naturale pensare che questi numeri scontino l’evoluzione dei tempi, che porta con sé un modo nuovo di vivere il tempo libero e gli spazi urbani, tuttavia quello che maggiormente sta contribuendo a segnare il destino dei nostri centri storici è la crescita smodata della GDO, dei grandi centri commerciali che con le loro politiche di prezzi aggressive non aiutano il piccolo commerciante.

Tralasciando i dati più prettamente economici e politici, che non mi competono, da architetto mi preme invece sottolineare l’aspetto estetico e culturale. Nel primo caso, credo sia sotto gli occhi di tutti la scarsa attrattività di alcuni centri commerciali, assimilabili a “grandi scatoloni”, privi di qualsiasi senso estetico e mal inseriti nei contesti circostanti, senza alcuna continuità ambientale. Dal punto di vista sociale, invece, dovremmo ragionare su come la loro presenza abbia cambiato il nostro modo di aggregarci e incontrarci. La piazza, che per secoli ha fatto parte della nostra cultura è stata infatti progressivamente sostituita da questi nuovi luoghi dedicati alla socialità, sempre più lontani dal centro abitato. Si tratta di un aspetto, quest’ultimo, che non prescinde dai valori che sia l’architetto che la classe politica devono considerare nella progettazione dello sviluppo di un centro urbano.

Gli ultimi progetti retail che ho visto presentati al MAPIC di Cannes, la più grande fiera internazionale del settore, invece che cogliere questa fotografia cupa dei nostri centri urbani, cavalcano ancora la moda dei grandi centri commerciali costruiti in zone lontanissime dal centro, spesso e volentieri senza preoccuparsi di creare o di trovare un possibile legame con la storia, la cultura, il territorio in cui andranno a sorgere. Alcuni di questi progetti sono gallerie commerciali gigantesche che non hanno alcun rapporto con il contesto, “atterrati” da un altro pianeta, come astronavi dotate di un linguaggio architettonico completamente astruso dall’ambiente architettonico e culturale circostante.

Questi progetti mi fanno seriamente pensare che invece che ad un’evoluzione del retail, stiamo assistendo ad un’involuzione: la proliferazione di questi nuovi mall, che quasi fanno a gara a chi è più grande, rischia sempre più di impoverire e di uccidere i nostri centri, che invece sono la ricchezza del nostro Paese e un perno della nostra tradizione e della nostra memoria.

Come architetto mi sono trovato più volte a confrontarmi con i clienti che ci chiedevano progetti per nuovi centri commerciali e quello che ho sempre cercato di trasmettere è un nuovo modo di vivere e di concepire questi luoghi, con la volontà di instaurare un legame forte e positivo tra il costruito, il contesto e il contenuto, sia che si trattasse di nuove realizzazioni che di riqualificazioni di vecchi immobili. Nonostante ciò, sono assolutamente convinto che si possa fare di più e si possa intavolare una discussione propositiva con le municipalità e soprattutto con i developer e i gestori, per ripensare ad un format diverso, che non voglia dire solo inserire entertainment nel luogo commerciale, ma ri-proporre una vita reale, fatta di luoghi veri per la socialità.

E’ necessario invertire questa rotta e muoverci per riattivare i centri cittadini, attraverso operazioni di “de-malling”, di riqualificazione e di rivalorizzazione che devono ricucire queste zone commerciali con il contesto e farle tornare ai loro antichi “fasti”, per dare vita a delle esperienze di vera qualità. Dobbiamo riappropriarci della nostra storia e della nostra cultura, esserne orgogliosi e non adottare modelli che non ci appartengono: i centri commerciali nascevano infatti negli anni ’50 negli USA, per creare delle destinazioni, dei luoghi artificiali di incontro e di eventi per sopperire alla mancanza di questi nelle campagne americane dell’epoca.

Noi non abbiamo bisogno di questi luoghi “finti”, perché abbiamo già i centri urbani, le piazze e le vie più belle del mondo!

Una proposta potrebbe essere di non conteggiare più nella SLP gli spazi commerciali di vicinato, una sorta di “defiscalizzazione” dei metri quadri retail nei centri urbani; ossia una serie di misure per alleggerire il carico fiscale e dar respiro ai commercianti al dettaglio, permettendo loro minori costi, eliminando per periodi iniziali l’affitto, tornando ad essere competitivi e soprattutto rivitalizzando i nostri stupendi centri storici.

Interventi come quello portato a termine nell’area Garibaldi-Repubblica di Milano con la realizzazione di una nuova area apogea, piazza Gae Aulenti, oppure nella vecchia fiera milanese con la nuova area commerciale di City Life, sono esemplari per dimostrare che il commerciale migliore è quello inserito nel contesto urbano, utile a ricucire il territorio ed ad integrare funzioni differenti, anche se si tratta di nuova edificazione.

Alla fine potremmo stare seduti nelle nostre città aspettando turisti da ogni parte del mondo che vengano a ri-vivere le vibranti esperienze delle nostre radici storiche; insomma un’Italia aperta al futuro, ma ricca del suo passato!

Note per il lettore: Massimo Roj è CEO e uno dei tre fondatori di Progetto CMR, società di progettazione integrata, aperta nel 1994 a Milano, con attività di respiro internazionale che, oggi, conta uno staff di 166 professionisti specializzati in diverse aree del campo architettonico, dall’interior design all’edilizia, alla pianificazione urbana. Lo studio ha sede a Milano e uffici a Roma, Atene, Barcellona, ​​Pechino, Chennai, Dubai, Istanbul, Giacarta, Manama (Bahrein), Praga, Singapore, Tianjin. Il loro motto è: Less Ego More Eco!



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