Non c’è pace per i “mercatoni”
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Il successo che fu di Mercatone Uno e la novità di format che portò ai tempi, fece in modo che lo stesso brand diventò, come si è verificato anche per alcuni prodotti di successo, sinonimo di un format distributivo che aveva nell’arredamento la sua base di partenza; base ben presto ampliata anche ad altri ambiti merceologici legati alla casa, con una buona dose di prodotti per il fai da te e il giardinaggio, e successivamente al tempo libero.
Insomma, il tempio del non food, che prescindeva dall’abbigliamento e, all’interno del quale potevi trovare tutto quello che serviva per la casa e altro ancora si definiva amichevolmente e universalmente come il “mercatone”. Il tempo e, soprattutto, i mutamenti verso una distribuzione moderna sempre più capillare sul territorio e diversificata ha sancito la vittoria – oggi più che mai – della specializzazione, ovvero l’esatto antagonista di un formato che più generalista non si poteva, schiacciato da più parti da una pletora di concorrenti molto agguerriti.
In buona compagnia con il format ipermercato, da anni il format sta attraversando un periodo di crisi profondissima e pur ridefinendo i suoi spazi – meglio dire riducendoli – e il suo ruolo, spesso cambiando ruolo e trasformandosi in una sorta di “affittacamere”, con accordi più o meno duraturi con lo specialista di turno, attualmente il “mercatone” non sembra aver trovato ancora una strada “sicura” da poter percorrere per il futuro. Anche il segmento dell’arredamento, di cui sono stati precursori, nell’ambito della definizione di “moderna distribuzione” non riesce più a resistere rispetto a quel ciclone che è stato l’arrivo di Ikea e i successivi brand della distribuzione organizzata dell’arredo, italiani e non. Per non citare il solito e-commerce.
Al netto di ritardi nel capire il cambiamento, o peggio di speculazioni anche illegali, le misure prese dai diversi brand della distribuzione di genere non sembrano tenere il passo con la velocità di un sistema di vendita in grande rivoluzione e le notizie di questi ultimi giorni sono lì da leggere e non si limitano all’Italia, ma coinvolgono anche altre nazioni, a testimonianza che la crisi del format è sistemica.
Per Mercatone Uno si aspetta, di nuovo, che si faccia avanti un altro compratore mentre Grancasa è da tempo che sta correndo ai ripari con accordi, un esempio su tutti l’affitto del ramo d’azienda Granbrico al Gruppo Bricofer. E, tuttavia, non sono bastati gli intenti dichiarati poco più di un anno fa, a Umbria 24, dall’ad Mauro Benedetti, con la decisione “di adottare una nuova strategia, che prevede il ritorno all’antico, cioè al nostro core business iniziale: il settore casa, i complementi di arredo, i mobili e gli elettrodomestici insieme ad Expert. di cui siamo soci. A nostro avviso, infatti, il pubblico oggi vuole specializzazione e l’essere troppo generalisti ci ha penalizzato”. Oggi la crisi del gruppo lombardo è sotto gli occhi di tutti, con un tavolo al MISE saltato e la previsione di licenziamento per 160 persone – le lettere sono già partire -, come “unica strategia per un piano di razionalizzazione che permetta stabilità sul mercato” (FILCAMS CGIL).
Un “nulla” se pensiamo alle recenti news che coinvolgono un’altra insegna presente sul nostro territorio ma francese di nascita. Si tratta di Conforama che oltralpe dovrebbe, secondo fonti sindacali, lasciare a casa quasi 2.000 persone per la chiusura di 32 negozi ad insegna Conforama e 10 a insegna Maison Dépôt. Ma non solo. Altri 700 licenziamenti sono previsti con la riduzione di personale tra i punti vendita esistenti (oltre 160) e la sede centrale.
Anche in Italia l’insegna del gruppo Steinhoff non se la passa molto bene. E’ dei primi di giugno l’accordo per la chiusura di 5 Emmezeta Moda 72 persone licenziate, mentre risale a marzo l’accordo per la riduzione di orario in 4 dei 19 negozi a insegna Conforama con relativi contratti di solidarietà.
Conforama ha 14.000 dipendenti in Europa, di cui 9.000 in Francia. Le maggiori criticità si registrano nell’andamento delle vendite in Francia e in Italia ma, complessivamente il gruppo sudafricano ha accumulato debiti per 10 miliardi di euro che i fondi speculativi hanno in parte riacquistato per prendere il controllo e smembrare il gruppo (fonte Uiltucs).
Il finale non è scritto e ognuno può tirare le conclusioni che ritiene opportune certo è che così com’è il modello non funziona o, per lo meno, può continuare a funzionare in quelle zone dove gli specialisti non sono ancora arrivati e dove l’e-commerce non è ancora pratica quotidiana.
Poi, però…
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