di Roberto Boniburini e Cristina Ziliani, Osservatorio Fedeltà Università di Parma
Fonte: Promotion Magazine
Lo scorso mese di ottobre si è svolto all’Università di Parma il consueto Convegno dell’Osservatorio Fedeltà (www.osservatoriofedelta.it), che si dedica da oltre 15 anni all’analisi delle tendenze in atto nel mondo della fidelizzazione della clientela e del crm. Quest’anno si è parlato di loyalty marketing e disruption, cioè di cambiamenti che rompono scenari consolidati e modus operandi tradizionali.
Il loyalty marketing è stato “disruptive” per due principali ragioni: perché ha introdotto l’orientamento alla fidelizzazione che rompe il cerchio dei tradizionali indicatori di successo aziendale – vendite, quota di mercato, profitti di breve – e afferma come misure chiave la retention e il customer lifetime value, ovvero la capacità dell’impresa di generare profitti di lungo periodo attraverso il mantenimento dei clienti attuali; perché ha mostrato che l’adozione di iniziative di fidelizzazione non ha confini settoriali né di dimensione aziendale.
I programmi fedeltà, i club, la gestione del cliente secondo logiche di crm sono presenti in tutti i paesi e settori e, grazie alla “rivoluzione digita- le”, sono alla portata delle imprese più piccole come delle più grandi. Fare loyalty nel tempo è passato dall’offerta di promozioni fedeltà e proposte mirate e personalizzate per segmenti e singoli clienti a un approccio più strategico che vede la creazione di un universo brandizzato intorno al cliente, riconosciuto con mezzi diversi, che può accedere a privilegi e servizi che lo supportano in una o più attività per lui rilevanti, non solo relative all’acquisto. La loyalty è cioè diventata “loyalty servizio”.
Le opportunità per avvolgere il cliente in uno spazio di marca che ne mantenga il “look and feel” si sono moltiplicate con l’aumento dei cosiddetti touchpoint, ovvero tutte le occasioni di contatto, che vanno dai media classici e digitali al punto di vendita, alle conversazioni spontanee sui social. I clienti e potenziali clienti si muovono liberamente nello spazio di mercato, vengono in contatto e ricordano combinazioni diverse di questi touchpoint, ovvero, con un’espressione in uso negli ultimi anni, “compiono diverse journey” tra i touchpoint.
Si è incominciato, allora, a sentire l’esigenza di considerare non ciascun touchpoint in sé, ma la somma degli effetti di questi contatti, per cercare di valutare l’esperienza complessiva che il cliente ne trae e garantire un’esperienza di qualità. È così che si è incominciato a parlare di customer experience management, che ha questi tratti distintivi: ha come obiettivo finale la fedeltà; la cultura su cui si fonda è guardare le cose dal punto di vista della reazione del cliente (esperienza); si realizza attraverso processi di disegno non del prodotto, ma delle esperienze del cliente, che si concretizzano nel disegno di touchpoint che siano connessi, coerenti, sensibili al contesto, che raccontano il brand theme; richiede innovazione organizzativa per la condivisione e lo sfruttamento dell’insight e alleanze esterne con altri player.
Si tratta a nostro avviso del punto di fusione tra il marketing strategico e il crm, ovvero tra la prassi di marketing com’è sempre stata realizzata dalle imprese, fin dagli anni ’60, e la cultura di crm che si fonda sulla visione relazionale, sulla raccolta di dati puntuali, l’analisi e l’impiego dell’insight. Il salto rispetto al solo crm è l’orientamento non più solo ad azioni operative (le offerte targettizzate e la gestione della relazione), ma anche alla progettazione strategica (nuovi prodotti e servizi, studio della concorrenza e del mercato).
Questa è la visione del nostro Osservatorio. Ma cosa pensano le imprese? A che punto sono nella realizzazione del customer experience management? A questo abbiamo dedicato una ricerca nel mese di settembre, di cui presentiamo i risultati. Uno studio internazionale (Homburg e altri, 2015) condotto su manager di diversi settori ha portato a individuare cosa intendono le imprese per customer experience: “lo snodarsi delle risposte sensoriali, affettive, cognitive, comportamentali e relazionali di un individuo a un brand o azienda… che si produce attraverso una serie di contatti con i touchpoint del brand/azienda nelle fasi pre, durante e post acquisto, e il confronto continuo con le con- temporanee esperienze che l’individuo realizza nel proprio ambiente”.
Siamo partiti da qui per chiedere quanto le aziende italiane si rispecchiassero in questa definizione: solo il 30% ha concettualizzato la customer experience in modo molto simile. Il rimanente 70% ha una visione diversa o, meglio, la nostra impressione è che non sia ancora arrivata a utilizzare questa categoria di pensiero, come dimostrano diversi commenti: la definizione è condivisa, è l’adozione da parte dell’azien- da che è lontana; il livello di maturità sull’argomento in azienda è molto basso: direi che non abbiamo una vera definizione; non abbiamo mai definito cosa s’intende; non ragioniamo con questa categoria mentale; la visione è più limitata e molto verticale, per singoli canali: non abbiamo ancora una visione complessiva dell’esperienza.
Gestire la customer experience è decisamente chiaro per il 19% dei rispondenti, per il 27,5% se si considerano le aziende che vendono online. Essersi attrezzate per gestire più canali, e in particolare touchpoint diversi che consentono la transazione, ha necessariamente fatto maturare il pensiero strategico dell’impresa nel senso di garantire un’esperienza positiva cross-canale. Meno del 7% delle aziende che non vendono online, e che non hanno quindi dovuto affrontare strategicamente la complessità del viaggio tra touchpoint, ha chiaro cosa s’intende per gestione della customer experience.
Se meno del 20% delle imprese ha chiaro cosa significa la customer experience, sono ancora meno quelle che si sentono davvero in grado di realizzarla: solo il 13% ritiene elevata la propria capacità in questo senso. La sfida più ardua che le aziende dovranno affrontare è riuscire a rinnovare costantemente la customer experience, non solo per sfuggire a possibili attacchi della concorrenza, ma anche perché il consumatore si abitua in fretta alle novità e ha bisogno di essere stimolato continuamente.
Il modo migliore per essere reattivi sul mercato, e continuare così a rinnovare e innovare la customer experience, è sempre quello che prevede l’utilizzo dei touchpoint, che servono sì all’azienda per offrire servizi al consumatore o come strumenti promozionali, ma soprattutto come mezzo per acquisire preziosi insight. Ma cosa significa saper gestire la customer experience? Sono molte le capacità richieste, le scelte organizzative e le sfumature culturali che facilitano l’orientamento al customer experience management.
Noi ci limitiamo a indagarne alcuni, che riteniamo elementi necessari, fondamentali per il customer experience management. In primis, è necessaria la capacità di raccogliere sistematicamente dati di qualità sui singoli clienti nei diversi touchpoint. Su questo fronte, è emerso che i touchpoint dai quali le imprese traggono con continuità informazioni di cliente sono: programma fedeltà, email marketing, customer service/call center, sito web, social media, concorsi e coupon. È basso lo sfruttamento della pubblicità online, degli sms, dei chioschi elettronici e della figura dei promoter rispetto alla penetrazione che questi touchpoint hanno sui consumatori italiani.
La qualità dei dati raccolti non sembra essere una criticità: seppure con differenze tra settori, poco meno del 30% delle aziende ritiene elevata la qualità dei dati di cliente raccolti dai touchpoint (considerando accuratezza, coerenza, tempestività e qualità complessiva). Il secondo tassello, più critico della qualità del dato, è la capacità d’integrare i dati di cliente provenienti dai touchpoint, in una vista unica, coerente e azionabile.
Abbiamo chiesto alle imprese di valutare la propria capacità d’integrazione delle informazioni di cliente; il che implica diversi aspetti, che vanno dall’integrazione di dati appartenenti a funzioni aziendali diverse, provenienti da fonti diverse, anche esterne, fino alla capacità di farlo a livello di singolo cliente: in media solo il 14% delle aziende ha una capacità elevata d’integrazione dei dati di cliente, ma si notano significative differenze tra settori, perché solo il 9% dei produttori di beni di largo consumo ha questa elevata capacità, contro il 14% della distribuzione moderna e il 25% dei servizi.
Il terzo step è la condivisione degli insight di cliente tra diverse funzioni aziendali (condivisione “orizzontale”) e tra diversi livelli gerarchici (condivisione “verticale”). Questo richiede un intervento sull’organizzazione che poche aziende hanno realizzato: in media solo l’8% condivide gli insight orizzontalmente e il solo 13% tra livelli gerarchici. La situazione è migliore solo nell’ambito dei servizi, dove non superano comunque il 25% le aziende in grado di far permeare l’organizzazione dalla conoscenza sviluppata sulla clientela. Raccolta dei dati, integrazione e condivisione nell’organizzazione sono premesse per poter sfruttare l’insight in ottica strategica. Qui il customer experience management si differenzia dal crm.
Come si misura la capacità di un’impresa di sfruttare strategicamente l’insight? Per poter cogliere queste abilità aziendali abbiamo adattato una scala di misura delle capacità strategiche utilizzata negli studi internazionali di marketing (Kohli e altri, 1993) e abbiamo investigato 13 ambiti di applicazione dell’insight di cliente. Questi i dati emersi: meno del 20% delle aziende ritiene di avere un’elevata capacità di gestione strategica tramite i touchpoint (nei servizi 27%); solo il 14% ritiene molto ben coordinate le attività condotte sui touchpoint dalle diverse funzioni; le aziende sentono di gestire meglio le tipologie di informazioni più “critiche”, come reclami e scoperte particolarmente importanti sui concorrenti, mentre la capacità di rispondere a una manovra della concorrenza tramite i touchpoint è molto limitata (6%); anche l’uso dei touchpoint per condurre ricerche di marketing è ristretto a poche aziende (14%); solo il 22% usa i touchpoint per scoprire cambiamenti nel settore o nelle preferenze dei clienti; vi è una differenza significativa tra industria, retail e servizi per quanto riguarda il tempo dedicato dal marketing a discutere con le altre funzioni aziendali su quanto emerso dai touchpoint e la condivisione di quanto scoperto da una funzione con le altre: le aziende dei servizi sono decisamente più abituate; le imprese che si preparano a vendere online tendono a essere più avanti sui vari aspetti della gestione strategica dei touchpoint (21%).
Dalla ricerca emerge chiaramente come il mondo dei servizi mostri sia una consapevolezza maggiore del concetto di customer experience management sia una capacità gestionale dei touchpoint più sviluppata. Questo non ci sorprende, dato che proprio i servizi sono stati pionieri nell’offrire e coordinare la customer experience per esigenze legate alla natura del prodotto che offrono. È l’intangibilità del servizio, infatti, che ha evidenziato già da molto tempo la necessità d’investire sull’esperienza da offrire al consumatore.
Il percorso per arrivare alla padronanza del customer experience management richiede impegno non solo in ambito tecnologico, ma soprattutto sul fronte organizzativo, dunque culturale, dell’impresa. Vi sono però buone ragioni per compiere tale sforzo: le imprese che eccellono nel customer experience management registrano performance economiche superiori alle altre. A conclusione del nostro studio abbiamo condotto un’analisi per verificare la relazione tra capacità di gestire strategicamente touchpoint e risultati aziendali in termini di fatturato, marginalità e performance complessiva. È emersa una correlazione significativa, controllando per dimensione aziendale, settore e orientamento alla relazione con la clientela.
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